I racconti dello Zio Valim: Ines

Le luci intermittenti dell’ambulanza mi riportano alla realtà. Si sono tutti dalla signora Ines. Per solidarietà condominiale scendo al piano di sotto e vedo la signora Ines seduta sui gradini della scala e gli operatori del 118 che stavano andando via.

 

  • Ho chiamato l’ambulanza perché mi sento sola, ogni tanto lo faccio.

 

Seduto accanto a lei sul gradino più alto di questa stupida scala, guardo, assonnato, verso le case di fronte colpite da una timida luce. Ora c’è tanto silenzio. Sta per maturare il nuovo giorno.

 

  • Bene, io ho sonno, me ne vado a dormire.

 

  • No, aspetta solo qualche minuto poi ce ne andiamo a letto. Ogni tanto mi capita di avere bisogno di qualcuno che mi ascolti. Sono sola, ma questo non mi impedisce di sognare di non esserlo; c’è tanta gente che si addormenta insieme a me, però, poi quando mi sveglio sono sempre da sola.

 


Con i gomiti appoggiati alle ginocchia e la testa fra le mani, forse per la posizione, o per il sonno andato a puttane, sono pervaso da una sensazione strana. Disorientato come se il mio culo fosse appoggiato su dei pezzi di vetro. La solitudine della signora Ines mi ha messo a nudo. Non parlo io, non parla lei nella sua camicia di notte rosa. La guardo, come se la vedessi per la prima volta. Non pensavo che avesse anche le gambe, l’ho vista solo affacciata alla finestra.

 

  • Andiamo signora Ines l’accompagno a casa, è quasi giorno, così potrà riposare un po’. Si appoggi a me, si tiri su…ecco.

 

  • Aspetta, aspetta ancora qualche minuto, sai, a volte mi sento come appesa ad una corda in mezzo al cielo, è una vertigine; sarà la morte che mi cerca?

 

  • Ha paura della morte? Io si

 

  • Non ho paura della morte, non devi averne nemmeno tu. non ho lasciato nulla in sospeso; nessuno lascia cose in sospeso, quello che è fatto è fatto. Sai, penso che se in alcune occasioni mi fossi comportata in maniera diversa forse sarebbe stato più giusto, mah, chi lo sa? Mi dispiace solo di quello che non farò, non di quello che potrei fare. Sai, anche se ho una certa età, la vita non basta mai, l’acqua sotto il ponte non è mai passata del tutto. Sono nata nel mese di dicembre di novant’anni fa, di pomeriggio, faceva freddo e c’era un forte temporale. Nella camera da letto c’erano candele accese dappertutto, perché, come accadeva spesso durante i temporali, era saltata la corrente. Mia madre col pancione distesa sul letto a gambe divaricate, un frenetico viavai di donne con gli abiti neri, lunghi fino alle caviglie: ma dove vanno? I miei fratelli con gli occhi sbarrati non capivano cosa stesse, succedendo. Io, ultima di sei figli. Non stavamo messi proprio male male, mio padre non aveva un lavoro stabile, ma lavorava tutti i giorni, o almeno così diceva. Però, sei figli in una casa sono tanti, e spesso, un pasto al giorno era quello che ci toccava. Fagioli e fagioli, fagioli e fagioli. Ti piacciono i fagioli? Poi un giorno mio padre decise che doveva fare fortuna in America e partì con altri due suoi amici. I primi mesi non abbiamo avuto notizie, poi un giorno arrivarono a casa i Carabinieri, si chiusero in una stanza con mia madre, noi fummo esclusi dalla conversazione, e le comunicarono che papà era morto. Capimmo tutto dalle urla di disperazione. Non so nemmeno se si fossero mai amati, ma per convenzione si urlava la propria disperazione. Qualcuno lo aveva urtato ed era caduto in mare, nel porto di New York. Era in pausa, sulla banchina era rimasta la ciotola del pasto, stava mangiando fagioli. Non sono riusciti a recuperare il corpo.

 

  • Alla lunga i fagioli fanno male.

 

  • Idiota!

 

  • Cosa le mancherà? Sempre se riesce a morire; mi sa che non la vuole nessuno e mi romperà le palle ancora a lungo.

 


Un impercettibile movimento delle labbra tradisce un accenno di sorriso.

 

  • Cosa mi mancherà…ecco, mi mancherà mio padre, perché non l’ho mai conosciuto, mi mancheranno le certezze, come la stazione, qui, di fronte, la gente che va, che viene; di andare in bagno quando ne ho bisogno, di mangiare quando ho fame o bere quando ho sete. Guarda quella tapparella viola di fronte a noi, che colore di merda, l’hai vista?

 

  • Si la vedo ora che si alza, vero, è un colore di merda.

 

  • Ecco, quella è una certezza che mi mancherebbe, si alza sempre alla stessa ora.

 

  • Non ci posso credere, le mancherebbe la tapparella qui di fronte.

 

  • Allora sei proprio minchia, come direste voi al sud, voglio dire che mi mancherebbero le cose di tutti i giorni, come il ragazzo che mi porta la spesa, a proposito come si chiama? Non l’ho mai saputo.

 

  • Valerio, si chiama Valerio, è del nord, Morgeux, lo conosco bene, o forse no. Mi ha raccontato che con i suoi amici, in una valle aostana, ascoltavano musica da una apecar che avevano modificato. mettevano musica ad alto volume e l’ascoltavano seduti sulle rocce. E, mi diceva, si sentivano liberi, vuoti, si muovevano al ritmo di qualsiasi genere musicale.

 

  • Ah, ecco, questo Valerio mi mancherà, anche se non lo conosco, però è gentile.

 

  • …se muore prima lei…

 

  • Ah ah ah, certo, se muoio prima io…e ora sono stanca…

 

  • Certo, ora andiamo, dai, l’accompagno, così riposerà per un po’, io fra poco devo andare a cercare lavoro.

 


Le sue mani sono vellutate, la pelle sottile; ho paura di farle del male. Inavvertitamente sono premuroso nei suoi confronti.

 

  • Si, andiamo. Ti autorizzo a toccarmi; aiutami ad alzarmi, e a darmi del tu, anche se vieni dal sud.

 


Un sorriso ironico fa capolino su quella faccia offesa dal tempo. Le rughe sul volto, in apparenza severo, non nascondono del tutto una bellezza antica, senza fronzoli. il tocco del suo braccio attorno al mio è lieve.

 

  • Ok

 

  • Si, ma solo per oggi.

 

Ora ride di gusto, rido anch’io, mentre l’accompagno al suo appartamento. Avvicina lentamente l’indice e il medio alla bocca, da un bacio ai polpastrelli e altrettanto lentamente alza il braccio verso il cielo.

 

  • Buonanotte signora Ines.

 

  • Buonanotte ragazzo.
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